La prima settimana di giugno si sono svolte, a Livorno e a Pisa, due presentazioni dell’ultimo volume delle opere complete di Errico Malatesta, “Lo sciopero armato”, approfittando della cortese disponibilità del curatore, Davide Turcato.
Il titolo del libro, ripreso da un articolo, rimanda in modo sintetico alla critica che Malatesta sviluppa in questo periodo, del sindacalismo: lo sciopero generale da solo è insufficiente per rovesciare il capitalismo, è necessaria l’azione cosciente degli sfruttati. L’appello all’armamento del proletariato si comprende meglio se si tiene presente che in quei tempi ogni conflitto di lavoro vedeva l’intervento dell’esercito a favore della “libertà di lavoro”, cioè per spezzare i picchetti degli scioperanti, intervento che si concludeva regolarmente con i soldati che sparavano sugli operai, provocando morti e feriti.
Gli appuntamenti sono stati molto interessanti, sia perché hanno permesso di ripercorrere la biografia di Malatesta, sia perché sono stati focalizzati alcuni punti nodali del suo pensiero. Il periodo coperto dal libro, infatti, è uno dei meno approfonditi nello sviluppo del pensiero malatestiano.
Gli anni dal 1901 al 1913 costituiscono il periodo più lungo che Errico Malatesta passa lontano dall’Italia. Durante questo periodo, la sua attività rimane più isolata da quello che avviene nella penisola ma, vista la presenza a Londra di una comunità anarchica internazionale, di cui Pietro Kropotkin rappresentava il maggiore esponente, e di una relativa maggiore libertà di movimento e di espressione, cresce il suo ruolo nel movimento anarchico internazionale.
In questi anni si svolge il Congresso Internazionale Anarchico di Amsterdam, che vide la partecipazione di molti esponenti dell’anarchismo internazionale. In occasione di quel congresso, Malatesta sostenne molti di quei concetti che oramai facevano parte della sua visione strategica, dall’organizzazione anarchica, al carattere rivoluzionario dell’intervento anarchico nel movimento operaio, che lo portò ad una critica anticipatrice del sindacalismo rivoluzionario, dall’antimilitarismo alla questione della violenza.
Davide Turcato, che ha avuto modo di studiare il corpus degli scritti malatestiani del periodo, ma anche le interviste rilasciate, i resoconti delle assemblee, dei comizi, dei congressi, fino ai rapporti degli arnesi di questura che non perdevano mai di vista il nostro compagno, ha illustrato l’evoluzione del pensiero, l’analisi delle nuove forme assunte dal dominio, le modifiche della composizione di classe, la critica del riformismo crescente all’interno della componente comunista del movimento anarchico, troppo impegnata sul fronte sindacale. Ne “Lo sciopero armato” è possibile seguire questa elaborazione, che precorre quella simile che avverrà nel movimento socialdemocratico poco prima lo scoppio della prima guerra mondiale, e nel corso della stessa guerra.
Errico Malatesta individua, già in una circolare scritta insieme ad altri compagni, le tendenze autoritarie che si stavano sviluppando all’interno degli stati liberali, collegandole al colonialismo e al crescente militarismo. La sua critica del sindacalismo si basa su un’analisi della composizione di classe che vede la nascente contrapposizione fra gli strati meglio pagati e quelli inferiori del proletariato, strati inferiori composti spesso di immigrati: sono i primi a fornire i sostenitori e i quadri dei sindacati e dei partiti operai, spesso animati dal disprezzo per chi sta peggio di loro. E’ il periodo, inoltre, in cui la critica del militarismo diventa sempre più importante nella propaganda e nell’agitazione anarchica: nel 1912, sempre a Londra, Malatesta sostenne un contraddittorio con Gustave Hervé, agitatore socialista, arrestato per la sua propaganda antimilitarista che cominciava ad evolvere verso il patriottismo, l’inventore dello slogan “Guerra alla guerra”.
Ma la riflessione più importante Errico Malatesta la dedica alla questione dell’insurrezione, e sarà questa riflessione a base della sua azione al ritorno in Italia nel 1913. Ad una visione superficiale, i ritorni di Malatesta in Italia nel 1897 e nel 1913 sembrano seguire lo stesso schema: una ripresa dell’attività del movimento anarchico, con iniziative di propaganda e di agitazione, un rafforzamento dei legami organizzativi, la costituzione di un fronte unico con gli altri partiti sovversivi, fino ad un tentativo insurrezionale che, per vari motivi, fallisce. L’interpretazione ufficiale si limita a queste somiglianze superficiali, rappresentando la strategia del movimento anarchico come una sorta di coazione a ripetere, che non riesce ad uscire dal ciclo (fallimentare) dell’insurrezione, e a costituire una valida alternativa alla politica del partito socialista.
Davide Turcato ha invece evidenziato la diversa impostazione dell’azione di Errico Malatesta nel 1913-1914 rispetto al 1897-1898. Alla fine dell’Ottocento, la strategia era quella di costruire un forte movimento anarchico, attorno ad un programma e ad un’organizzazione precisa, che sappia tener testa alla crescente influenza del partito socialista, che sappia costruire legami stabili col movimento operaio, che sappia sfruttare al massimo tutti gli spazi di azione lasciati aperti dalla repressione governativa e, al termine di un lavoro lungo e paziente, spinga le masse influenzate dall’anarchismo all’insurrezione. Ma l’insurrezione, lo scontro violento con le istituzioni che culminò con il massacro di Milano del maggio 1898, scoppiò ben prima che questo lavoro potesse dare i suoi frutti e le gracili strutture dell’organizzazione anarchica furono travolte dalla reazione sabauda.
A partire da quella esperienza Malatesta avvia una riflessione sulla strategia, e arriva alla conclusione che gli spazi di libertà si vanno sempre più restringendo, mentre si riducono i margini per i miglioramenti della condizione economica dei lavoratori. Quindi l’insurrezione non è più il momento finale di un percorso ascendente che aprirà le porte alla nuova società, l’insurrezione vittoriosa, che porti alla caduta della monarchia, è la premessa indispensabile per una società, che non sarà ancora anarchica, ma potrà permettere quel lavoro lungo e paziente, quella crescita graduale che getterà le basi dell’anarchia. Nel 1898, all’indomani delle stragi compiute da Bava Beccaris, Malatesta dà alle stampe un opuscolo dal titolo “Contro la monarchia”, in cui lancia un appello agli altri partiti sovversivi per un’unione con lo scopo di arrivare alla cacciata dei Savoia, lasciando poi al libero esplicarsi della propaganda e dell’agitazione di ciascun partito la forma che dovrà assumere la nuova Italia. L’appello per il momento resterà senza seguito, ma quella linea sarà poi sviluppata sui temi che potevano unire i partiti sovversivi, si cercherà di ricomporre le fratture all’interno del movimento anarchico, lasciando in secondo piano la chiarificazione delle questioni teoriche ed organizzative. Nel corso della sua lunga vita Malatesta vedrà crescere quelle spinte autoritarie, che aveva già viso all’inizio del secolo, ribadendo la necessità dell’insurrezione per fermarle, operando per il successo dell’azione sovversiva. Malatesta vide al tempo stesso i continui tradimenti dei partiti sovversivi a parole e parlamentari nella pratica. La sconfitta della tattica insurrezionale porterà alla vittoria del fascismo. Quello che non potè vedere Malatesta è che la caduta del fascismo e la fine della guerra videro un nuovo protagonismo delle classi popolari proprio attraverso il metodo dell’insurrezione: la strategia del movimento anarchico dimostrava la sua validità perché veniva fatta propria anche da persone e forze politiche molto lontane dall’anarchismo. Il successo dell’insurrezione, convenzionalmente datata al 25 aprile, permise agli italiani di conquistare quelle libertà continuamente minacciate dai governi di ogni colore.
Riflettere oggi sulla precedenza dell’insurrezione popolare vittoriosa, può aiutare a capire meglio la soluzione politica da dare alla crisi in cui ci hanno gettato le classi privilegiate ed i governanti.
Tiziano Antonelli